di Felix B. Lecce

 

L'eterno interrogativo sulla leadership è: leader si nasce o si diventa? La domanda è fuorviante perché presuppone due sole possibilità di risposta.
 
Tutti nasciamo con capacità e attitudini da cui possiamo tirar fuori il massimo con l'apprendimento. William Shakespeare diceva: «C'è chi nasce grande, chi lo diventa e chi è costretto a diventarlo». Nessuno nasce già leader! Tutti abbiamo da imparare. Soltanto l'apprendimento - nell'accezione più ampia del termine - ci può permettere di far emergere le nostre naturali inclinazioni.


Chi crede che “leader si nasce”, farà mai qualcosa per sviluppare la propria leadership o per migliorarla? Farà mai qualcosa per permettere agli altri di sviluppare la loro leadership?

Ho studiato a lungo e mi sono occupato per molti anni di leadership in ambiti militari particolarmente a rischio ed ho constatato che tutta la specifica letteratura internazionale concorda nel sostenere che “leader si diventa” quando capacità e attitudini si fondono in una sinergia unica e irripetibile, condizionata certamente dall'accumularsi di relazioni interpersonali instaurate nel tempo, dall'ambiente in cui si è vissuti prevalentemente e dalle situazioni in cui ci si è trovati più spesso.

Secondo Daniel Goleman un leader davvero efficace, oltre che disporre di capacità intellettuali, deve saper creare risonanza, saper diffondere emozioni e saperle gestire al meglio. Il compito principale dei leader - dice Goleman - è quello di innescare sentimenti positivi nelle persone che dirigono. Ciò accade quando essi sanno creare risonanza, una riserva di positività che libera quanto c'è di meglio in ogni individuo.

Per diventare leader dobbiamo cambiare ed evolvere noi stessi: sviluppando le nostre capacità e attitudini, fino a divenire un esempio per gli altri. Bisogna, innanzitutto, sviluppare la capacità di comunicare per convincere sia sé stessi che gli altri. Secondo me, Tao Te Ching aveva ben sintetizzato l'essenza dell'essere leader in questa sua affermazione: «Analizzare gli altri è conoscenza. Conoscere sé stessi è saggezza. Dirigere gli altri richiede abilità. Per padroneggiare sé stessi ci vuole forza interiore».

A dispetto di coloro che fanno riferimento solo alla leadership di matrice anglofona o americana, io adoro discorrere sulla tradizione italiana in materia.
 
A Gianni di Giovanni, grande leader italiano d’azienda - che è anche uno dei migliori esempi di come un leader made in Italy dovrebbe saper esprimere la propria leadership anche attraverso l’uso magistrale delle modulazioni e delle intonazioni della propria la voce - devo il merito di avermi ricordato con il suo pregevole discorso tenuto durante la cerimonia di apertura dell'anno accademico 2014-2015 del Master in Scienze Forensi di Sapienza (cui mi onoro di essere il docente di comunicazione e di analisi comunicazionale, nonché il responsabile della comunicazione, da oltre un decennio) che le grandi organizzazioni internazionali di successo, a prescindere dal settore in cui operano, fondano la propria gestione su questi cinque semplici principi: comunicazione; innovazione; integrazione; meritocrazia e standardizzazione.

Questi cinque fondamenti del management - come ha precisato orgogliosamente anche Di Giovanni durante il suo discorso agli studenti di Sapienza - non li hanno inventati gli inglesi o gli americani, che vantano di essere stati gli antesignani delle multinazionali di oggi con la loro Compagnia delle indie.
 
Le regole per la gestione delle grandi organizzazioni le abbiamo inventate noi con l'impresa internazionale di maggior successo nella storia dell'umanità: l'Impero romano. Un Impero durato un millennio e che si estendeva dalla penisola iberica alla Persia, dalla Gran Bretagna e fino alle rive del Nilo.
 
La millenaria impresa espansionistica dell'Impero Romano si fondava su cinque principi fondamentali. Sugli stessi cinque sui quali si basa il successo delle grandi fondazioni ed organizzazioni globali.
 
La comunicazione dei valori di Roma, dei suoi eroi e dei suoi successi era il fulcro per la creazione di una visione e di una cultura condivise. Gli antichi romani ben consapevoli del bisogno universale dell'uomo di sentirsi parte attiva di un disegno più ampio. Comprendevano anche che un'organizzazione, oltre a fare, deve anche saper raccontare ciò che fa in modo da far sentire tutti partecipi e coinvolti. I media dell'epoca erano l'arte e la letteratura. Ad esempio, l'Eneide propagandava ampiamente l'impero romano e Augusto. L'Impero romano già 2500 anni comunicava quotidianamente attraverso giornali: gli acta diurna. Essi venivano redatti ogni giorno ed affissi su tavole imbiancate ed esposte al pubblico. Venivano recapitati anche alle guarnigioni dell'esercito ed affissi in appositi spazi espositivi di ogni provincia. La comunicazione era per i romani uno strategico mezzo di informazione e di propaganda, oltre che di trasparenza e veniva utilizzato molto efficacemente anche per motivare i cittadini.
 
L'innovazione: Roma era molto aperta al cambiamento e ciò le dava nuova linfa per il suo continuo successo. I romani introdussero innovazioni in ogni campo. Anche la finanza innovativa è fiorita a Roma, alla quale dobbiamo: la cambiale (permutatio), le prime società per azioni (partes), la stipula dei contratti a termine per commodities (vendito spei). Dall'impero abbiamo però ricevuto in eredità anche il diritto tributario e la tassazione organizzata. Il concetto di moneta unica cui si è ispirata in epoca recente l'Unione Europea, lo abbiamo anch'esso ereditato da Roma: l'unica moneta circolante in tutto l'Impero era il denario.
 
L'integrazione: l'Impero romano era molto sensibile alle buone idee ed ai meriti, anche quando nascevano fuori da Roma. La sua stessa sopravvivenza dipendeva dalla sua capacità di assimilare culture diverse e di integrarle. Roma governava una popolazione di oltre 70 milioni di persone, sebbene il suo esercito contasse poco più di 150 mila uomini. Quindi non poteva certo contare sulla forza di sopraffazione del suo esercito, ma bensì sul potere persuasivo della sua leadership capace di convincere milioni cartaginesi, celti, etruschi, illirici e molti altri ancora, a voler essere cittadini dell'Impero per condividerne mission, valori e benefici. La sinergia tra sistema meritocratico e integrazione di tutti i cittadini dell'Impero permise ad alcuni ex barbari di fare una straordinaria carriera politica. Si pensi che ben tre dei più grandi imperatori erano di origini straniere: Costantino I(detto il Grande), imperatore romano nel 306 a.C., era serbo; Gaio Aurelio Valerio Diocleziano, noto come  “Diocleziano” era croato, Traiano, sotto il cui comando supremo l'Impero romano raggiunse la sua massima estensione territoriale (6,5 milioni di chilometri quadrati), era spagnolo; Lucio Settimio Severo, libico di etnia berbera, fu Imperatore di Roma dal 193 d.C. e fu anche il primo "capo di stato" di colore. 

La meritocrazia fu uno dei fondamenti della forte identità di Roma. Nella Repubblica, la progressione nel cursus honorum era permessa soltanto a chi conseguiva risultati concreti. Cicerone, sebbene non fosse di famiglia nobile, poté ugualmente diventare console. Roma ampliò la portata della sua meritocrazia grazie all'Istituto dell'adozione. Molti imperatori scelsero il loro successore tra persone diverse dai propri eredi naturali. Preferirono indicare loro successori uomini ritenuti maggiormente meritevoli e capaci di governare, adottandoli quindi come figli. 

La standardizzazione: la Repubblica romana era un sistema che oggi, utilizzando un anglicismo molto in voga nel linguaggio aziendale, potremmo definire process driven: cioè un'organizzazione nella quale i processi erano presenti in tutte le attività più importanti, imponendo standard precisi in ogni regione dell'Impero. Coloro che intraprendevano la carriera politica seguivano un rigoroso percorso scandito dal cursus honorum che prevedeva incarichi militari e politici con una tempistica rigida e ben stabilita.
 
Gli stessi principi sopra illustrati sono applicabili ed applicati ancora oggi a grandi aziende ed organizzazioni, ma metterli bene in pratica richiede certamente uno straordinario impegno, tanta dedizione, motivazione ed un gran coraggio che, mi piace pensarlo, certamente noi italiani, in quanto discendenti di quei formidabili antichi romani, abbiamo ereditato nel nostro patrimonio genetico. 

E dopo questa esortazione quasi eroica ad affrontare le sfide che le attuali congiunture di crisi ci pongono davanti, non mi resta che augurarci il prosperare a breve di una vera cultura della leadership (e della self-leadership) made in Italy che possa rappresentare un vero e proprio propulsore di successo (mi riferisco, soprattutto, al participio passato del verbo “succedere”), ovviamente italiano al 100%, ovvero, ESSERE I CAMBIA-MENTI CHE VOGLIAMO FAR SUCCEDERE. 
 
Buona Leadership a tutti, rigorosamente made in italy!